Il Concilio di Trento in
prospettiva storica
di mons. Iginio Rogger
A dire il vero il luogo
più appropriato per toccare il tema Concilio sarebbe il
centro, la piazza Duomo, il Museo Diocesano Tridentino che ho
l'onere ancora oggi di dirigere e che, non a caso, è stato
pensato nel 1963 (in occasione del quarto centenario della
conclusione del Concilio di Trento, che è stato celebrato
in modo grandioso dalla regione autonoma e dal comune) e che
è stato istituito in quel palazzo che era l'antico palazzo
residenziale dei vescovi di Trento, riattato e adattato ad essere
sede del Museo Diocesano, proprio con l'intenzione di erigere un
monumento del centenario del Concilio di Trento. In quella sede
abbiamo disposto anche elementi iconografici fondamentali che,
purtroppo, oggi, con queste moderne forme di proiezione, non ho
portato con me, anche per ragioni di brevità. Al di
là di questo, chi chiedesse più esplicitamente un
aiuto per ritrovare a Trento ciò che ricorda il Concilio o
un aiuto per trovare il luogo del Concilio a Trento, una visita
al museo diocesano sarebbe la cosa più appropriata, e, in
questo senso, contate pure sulla mia misera disponibilità
in quella sede, per puro dovere professionale. Ma non posso
trascurare l'occasione per menzionare una pubblicazione che
proprio in questi giorni è uscita, promossa dal Comune,
dall'Assessorato alla cultura del Comune di Trento, “Il
Concilio di Trento, i luoghi e la memoria”, un testo
molto ben fatto che, non solo si premura di identificare e anche
un po' di illustrare, i luoghi dove più propriamente il
Concilio fu tenuto. Badate bene, anche a questo riguardo, in
città, a Trento, ci sono delle vecchie impostazioni da
correggere: ancora oggi c'è qualcuno che indica la chiesa
di Santa Maria Maggiore come la chiesa del Concilio di Trento,
mentre nel frattempo l'edizione critica degli atti del Concilio
colloca tutte le sessioni nel Duomo di San Vigilio e in una
posizione ben precisa nel Duomo. Ma ecco il libro appena
comparso, tornare con più chiarezza e con migliore
informazione su questo e non posso fare a meno di segnalarlo.
Se vogliamo, ci sarebbero due
temi diversi da trattare, forse in sede diversa: uno, il Concilio
di Trento, l'altro, la città di Trento come ospite del
Concilio. Penso che non sbagliamo per ora a trattenerci
primariamente sul primo, pronto a dare tutte le risposte qui e
altrove anche sul secondo tema.
La prima cosa che devo dire (e
mi rendo conto di quanto sia necessario dirlo e ridirlo e non
presupporlo già scontato e acquisito) è che la
visuale del Concilio di Trento, nella nostra età, nella
mia non verde età, direi dalla meta del '900, è
andata notevolmente cambiandosi; si è ristrutturata
fortissimamente la visuale del Concilio, il modo di conoscerlo e
di abbordarlo. Come è avvenuto questo?
Vedete, fino a metà del
secolo ventesimo, si aveva, e, per chi vuole, si può avere
ancor oggi (ognuno si tenga poi l'immagine che vuole), una
visione molto vincolata del Concilio di Trento, molto codificata.
Se vogliamo riassumere un momento che ha coniato quel modulo di
nozioni sul Concilio di Trento, risaliamo pure alle celebrazioni
del centenario del Concilio di Trento che furono celebrate
solennissimamente anche a Trento nell''800, nel 1845, terzo
centenario dell'apertura del Concilio di Trento, e 1863 terzo
centenario della conclusione del Concilio. Una visuale, ho detto,
molto vincolata, dovuta al fatto che uno studio storico onesto e
radicale non era stato ancora fatto, e per ragioni anche
comprensibili, che però hanno avuto la loro conseguenza.
Cioè gli atti del Concilio di Trento, la principale
documentazione, gli atti copiosissimi, non solo delle sessioni,
cioè dei momenti culminanti, le 25 sessioni del Concilio
di Trento e che si ritrovano in ogni elementare manuale con i
decreti di fede e di riforma, no, gli atti delle congregazioni
generali, dei dibattiti quotidiani, del plenum dei vescovi
presenti, gli atti delle molte commissioni di teologi, di esperti
in diritto canonico, con le ragioni pro e contro, una
documentazione enorme, finito il Concilio, non sono rimaste a
Trento.
Il Concilio aveva una dirigenza
in nome della Santa Sede, quindi sono stati portati a Roma, e
sono stati, per ragioni comprensibili in quel tempo,
semplicemente sequestrati. Erano custoditi tra le cose più
gelosamente custodite dell'archivio segreto vaticano e per
secoli. E nemmeno nelle sale della biblioteca vaticana o
nell'archivio, ma in Castel Sant'Angelo, nella fortezza. Per
ordine di papa Pio IV, che è quello che per un verso ha il
merito grande di aver approvato i decreti del Concilio di Trento,
tutti, contrariando anche qualche opinione avversa nel suo
ambiente che avrebbe preferito che venissero selezionati quelli
che il papa approvava e gli altri no. Invece tutti approvati.
Però! però con
una esplicita condizione: che nessuno al mondo fosse in grado di
interpretare i decreti del Concilio di Trento tranne che la Santa
Sede, che per questo motivo istituiva una congregazione,
cioè un dicastero apposito, la Congregazione del Concilio,
l'unica autorizzata a dare l'interpretazione autentica di quei
decreti.
Dunque qui si tratta, come
tutti vediamo, di un'interpretazione che vuol essere autentica,
ma nel senso dell'autorità che, in questo senso,
può anche interpretare contro la lettera stessa dei
documenti, dicendo: adesso quello che vale è questo
aspetto. Questo è un regime che valse nella
interpretazione del Concilio di Trento.
Naturalmente una ricerca
più sostanziale di come sono andate le cose: cosa sia
stato detto e deciso, quali sono stati i motivi, come sono stati
poi formulati e ridimensionati, era pur sempre nel desiderio di
tutti, ma anche qui la storiografia ha avuto le sue disavventure,
prima attraverso una storiografia piuttosto aggressiva di quel
servita Paolo Sarpi, che era nell'ambiente veneziano, con una
storia molto polemica che ha cercato di decifrare questa macchina
come artificiosamente guidata dal papa per evitare che il
Concilio in qualche maniera decidesse qualcosa che non gli
piaceva. Ad essa, da parte della curia papale, è stato
contrapposto un trattato ad opera del gesuita Pallavicino (1651)
che, quello sì, ha avuto la disponibilità dei
documenti, ma li ha utilizzati primariamente per dimostrare che
Paolo Sarpi è un mentitore, che la storiografia fatta da
quello è tutta tendenziosa.
Questa era la condizione della
storia del Concilio di Trento che noi possedevamo. C'era il
famoso storico protestante dei papi Leopold Ranke, metà
'800, che diceva chiaro: per ciò che riguarda il Concilio
di Trento, uno storico può fare anche a meno di
impicciarsene, perché quelli che potrebbero farla questa
storia, cioè quelli che hanno i documenti in mano, non la
vogliono fare, quelli che invece la vorrebbero fare non la
possono fare, perché non hanno di documenti a
disposizione.
E qui il fatto capitale
è che sulla fine del secolo XIX, Leone XIII, ha aperto
tutto questo complesso di documenti dell'archivio vaticano
mettendoli a disposizione di studiosi, tanto cattolici come non
cattolici, e che dall'inizio del secolo XX è iniziata
addirittura una una edizione critica in grande dei documenti del
Concilio di Trento ad opera della società Göresiana,
la società degli studiosi cattolici germanici, una
edizione splendida, esemplare, anche dal lato filologico, di cui
qualche volume sta ancora comparendo (l'ultimo è comparso,
mi pare, tre anni fa).
Finalmente siamo entrati in
un'altra forma di ragionamento e, naturalmente, su questa base,
finalmente è spuntato anche qualche vero storico del
Concilio di Trento che tratta l'argomento non per ragioni
apologetiche, non per difendere ad ogni costo, ma per mettere in
luce ciò che è accaduto e per formulare un giudizio
storico vero e proprio. Non mi dilungo ulteriormente, ma devo
ricordare in questa occasione quello che è il personaggio
chiave di questa storia del Concilio di Trento finalmente
è comparsa: Uber Jedin. Personaggio che a Trento
hanno conosciuto molto bene. Già nel 1945, nella
ricorrenza del quarto centenario della prima apertura, si pensava
di fare una bella commemorazione del Concilio di Trento; se ne
occupava l'allora direttore del settimanale diocesano, mons.
Giulio Delugan. Jedin era già a contatto, era già
andato e venuto più volte a Trento già prima del
1940. Ho avuto la fortuna di trovarmi con lui nella stessa casa
per diversi anni a Roma al Collegio Teutonico in
Camposanto negli anni in cui maturava questa idea e di
stargli vicino anche successivamente quando nel 1949 è
diventato ordinario (ha avuto la cattedra di storia della Chiesa
all'università di Bonn), ma anche per la celebrazione del
1963, Jedin è stato così presente, spiritualmente e
fisicamente, a Trento, al punto che, con grande merito, ha
ottenuto sia la cittadinanza onoraria di Trento, cosa abbastanza
rara a quel che vedo, e insieme il canonicato onorario di Trento.
È stato veramente considerato come cittadino di Trento.
Anche la sua biblioteca personale è finita a Trento, Jedin
è morto nel 1980, non senza aver dato qualche ulteriore
prova della sua affezione a Trento perché, quando nel 1970
circa, la provincia di Trento, ha fondato quello che ancora oggi,
con un nome sempre un po' riadattato si chiama Istituto
Storico Italo-Germanico, il suo primo presidente fu Uber
Jedin.
Dunque abbiamo finalmente sul
tavolo questa Storia del Concilio di Trento, in quattro volumi,
tradotti in italiano dalla Morcelliana, e tradotti in quasi tutte
la lingue moderne. Jedin stesso la caratterizzava dicendo: il
Concilio di Trento oggi non è più un oggetto
controverso, perché era altrimenti uno dei tipici temi sui
quali ci si contrapponeva. Da quando le fonti della sua storia
sono a disposizione di tutti nella edizione del Concilium
Tridentinum, noi siamo in grado di individuare la sua
posizione storica e di esaminare, realisticamente e sobriamente,
come ha risolto i problemi che gli erano stati assegnati.
Certamente lo spostamento di
prospettiva è stato gigantesco, ricordo come Jedin stesso,
che in un primo momento progettava di articolare in quattro
volumi la storia del Concilio di Trento, un volume per ognuno dei
tre periodi del Concilio di Trento e un ultimo volume per
l'applicazione del Concilio di Trento (si chiamava la riforma
tridentina), gradatamente è andato maturando l'idea su cui
parlavamo tante volte, che in realtà, la cosiddetta
applicazione del Concilio di Trento, è un'altra storia,
è condotta da altri criteri e appartiene a un'altra
situazione e quindi egli puntualmente ha deciso di fermarsi alla
conclusione del Concilio di Trento, perché ciò che
viene dopo, utilizza bensì i decreti del Concilio di
Trento, però secondo altri criteri e in un altro contesto;
di questo si può discutere se sia controriforma o riforma
cattolica, ma non è puro e semplice Concilio di
Trento.
Questo per dire che oggi per
chi prende per mano l'argomento, il Concilio di Trento non
è puramente contrapposizione, è molto meno
antiprotestante di quello che, invece, leggendolo in quell'altra
chiave, si era soliti dire e affermare (questo anche per amore di
un onesto colloquio culturale e soprattutto di un onesto
colloquio con le altre confessioni religiose).
Nel 1863, quando fu così
solennemente celebrato il terzo centenario del Concilio di
Trento, ci fu un gruppo di professori, compresi sacerdoti di
Rovereto, che curò per quell'occasione, un'edizione
speciale del libro di Antonio Rosmini, “Le cinque piaghe
di santa madre Chiesa”. Fece un'edizione speciale,
pagandola di propria tasca, e mandò ai padri, convocati a
Trento per la solenne celebrazione, questa edizione che si
differenziava, (cominciava già allora, in campo cattolico,
una certa differenziazione da quello che era l'immagine consueta)
con una prefazione anche abbastanza pungente. Naturalmente fu
accolta male quanto mai, al punto che (anche se non è
stata bruciata per ordine vescovile), alcuni fanatici, nel
cortile interno dell'allora residenza vescovile (si trovava a
Trento dove ora c'è la Banca d'Italia) ha proceduto a
bruciare, con un certo clamore, le copie quell'edizione. Questo
segna la differenza di modi di sentire a distanza di cento
anni.
Mi pare che chiunque prenda in
mano il Concilio di Trento oggi, non dovrebbe dimenticarlo,
perché non è più una cosa controversa, va
trattata con criteri storiografici sine ira et studio,
secondo le regole e la metodologia storica per arrivare a
cogliere, per quanto è possibile, la realtà delle
cose.
Toccando un po' genericamente
la realtà delle cose direi: la prima differenza che io
incontro rispetto alle trattazioni precedenti è che,
mentre prima mi sembrava già un'esagerazione cominciare a
parlare del Concilio di Trento partendo dal 1517, cioè
dalle tesi luterane di contestazione delle indulgenze, e poi di
tutta la diatriba che ne è conseguita, perché
insomma, o parliamo del Concilio di Trento o parliamo della
rivoluzione luterana; (anche se in realtà l'una cosa si
collega con l'altra), ora, se voi prendete in mano la storia del
Concilio di Trento di Jedin, vi accorgete che il primo volume non
è dedicato solo alla origine, alle discussioni
protestanti, ma risale ancor molto più indietro,
cioè rifà tutta la questione della riforma
ecclesiale a partire dalla prima metà del quattrocento,
con una serie di problemi scottanti, ma risolti così,
tamponati, ma mai risolti del tutto, e quindi con replicate
spinte di riforma, anche proprio da parte cattolica. Mi riferisco
ad esempio a tutto il discorso del Savonarola in Italia e ad
altre spinte di riforma che anche nell'ultimo concilio prima di
quello Tridentino, quel Concilio Lateranense Quinto, che si
chiudeva proprio nel 1517, dove voci di riforma erano venute
fuori, però, inefficaci quanto mai. Per capire la
situazione occorre veramente riprendere in mano tutto questo
problema nella sua globalità, anche nella impostazione
ecclesiale, anche nei modi di concepire e capire la realtà
Chiesa, così fantomatica.
Per quel che riguarda
l'organizzazione siamo ancora di fronte ai problemi dello scisma
di occidente e delle dichiarazioni conciliari di Costanza, dove
si era riusciti a recuperare l'unità della Chiesa,
però a patto di dichiarare in un concilio che:
primo, il concilio è
l'autorità suprema alla quale tutti devono sottostare, e
non il papa, perché di papi ce n'erano già due o
tre e andavano moltiplicando la frattura;
secondo, che la realtà
conciliare è indispensabile alla Chiesa e quindi, l'altro
decreto di Costanza, che disponeva che, voglia o non voglia la
Santa Sede, ogni 10 anni si dovesse fare un concilio
perché la trascuranza di questa dimensione
(“sinodale” diremmo oggi) è quella che porta
tanti disastri nella Chiesa.
Naturalmente anche in queste
tesi portate avanti in modo radicale, si evidenziano
inconvenienti su inconvenienti, però non si arriva,
né alla rivoluzione luterana né al Concilio di
Trento senza tener conto di questi precedenti.
Su questo sfondo aggiungiamo
pure un'altra cosa: nel '400 e nel '500 anche tra i cattolici
(non è solo questione dei protestanti) non esiste un'idea
abbastanza afferrabile e articolata di ciò che è la
Chiesa. Guardate anche nei libri di pietà, l'Imitazione di
Cristo, libro così devoto e cristiano del quattrocento, ma
voi, la nozione di Chiesa, la trovate solo per dire l'edificio in
cui si dice la messa. Qualcosa che tenda ad affermare più
fortemente cos'è la Chiesa, chi la compone, come la si
capisce, che rapporto ha con i sacramenti e con la celebrazione,
che regole di autenticità della propria fede, è
tutto un argomento che sfugge all'attenzione. Quindi non
meravigliamoci di certe esagerazioni, di certe impostazioni
radicali del protestantesimo.
La fede! la fede è
l'elemento che salva l'uomo, non altro! la giustificazione
mediante la sola fede. L'errore sta in questo, escludere che
altro, oltre che la fede salva l'uomo, l'errore sta nell'avere
puntato solo sull'individualizzazione. E la fede da dove si
attinge? dalla sola scrittura! la scrittura che il popolo di Dio
non leggeva più da secoli, non veniva tradotta in lingua
comprensibile, non affiorava nella celebrazione liturgica.
La sola scrittura! c'erano
delle cose più che necessarie, autentiche, però
recuperate in modo rivoluzionario, unilaterale, radicale.
Però, dall'altra parte, c'era una capacità per
assimilare questo? per riportarlo nelle dimensioni giuste? in
realtà, lì è scoppiato il grande dissenso.
È come un incendio di un lampo! da qui la contestazione,
neanche delle scritture, ma di un certo modo di gestire le
indulgenze, sia le remissioni dei peccati ai viventi, sia le
indulgenze per i defunti, che sapeva un po' troppo di traffico
bancario. E tutto questo connesso con quella situazione
spirituale e politica dell'Europa centrale di quel tempo.
Vedete allora, come in questo
contesto il discorso concilii-concilio, sembrava comunque la
risoluzione, il punto a cui riferirsi per trovare la formula in
cui tutti potessero ormai trovare la vera dottrina.
Ci furono discussioni a non
finire già prima del 1521, ma il grande momento esplosivo
fu alla dieta di Worms, perché in questa situazione fin
dall'inizio (meglio fin dal 1520-21), si trova implicato
l'imperatore Carlo V, con il suo tipo di missione cristiana,
tutore dell'unità dei cristiani. Ecco la grande esplosione
alla dieta di Worms (1520). “Tutto il mondo chiede il
Concilio” riferisce il legato papale, il Concilio è
sentito da tutti, anche fuori dello schieramento luterano, come
l'unica soluzione possibile.
Allora bisogna domandarsi
perché non è venuto subito questo concilio?
Naturalmente c'è di mezzo il tipo di concilio che si
avrà da fare. Perché Concilio è una parola,
è una potenza, però ci sono mille modi diversi di
intenderlo.
C'è di mezzo tutta una
situazione politica internazionale in Europa che implica molto,
anche i modi di vedere, di sentire da parte della curia papale e
dello stato pontificio, cioè il grande antagonismo tra
Casa d'Asburgo, diventata in questo momento la potenza mondiale,
il regno su cui non tramonta il sole, grazie a una fortunata
combinazione di opportunità politiche, e la Francia, la
grande contrapposizione. Ecco, allora, il primo tentativo: le
diete dell'Impero. Perché l'Impero Germanico non è
uno stato unitario, tutt'altro, è una congerie di
staterelli piccoli e grandi, potenti e deboli, stati
ecclesiastici e laici, dove si incrociano pareri molto
diversi.
Prima riunione (1522-23): dieta
dell'impero dove i luterani, come i cattolici, concordano in
questo, con una decisione di tutta la dieta imperiale: “ci
impegniamo a stare a quelle che saranno le decisioni di un
concilio, libero”. Ma cosa si intendeva per libero?
certamente molti protestanti intendevano libero dal papa, i
cattolici lo intendevano libero, cristiano, che si riferisca alla
scrittura e non tanto a tante regole medioevali del diritto
canonico e a certe consuetudini della vita della Chiesa che erano
diventate piuttosto dannose e, altra condizione, quella che ci
riguarda di più, in terra tedesca.
Il discorso è
riaffiorato nella seconda dieta di Norimberga (1524) dove, di
fronte al ritardo di un concilio che non veniva e alla minaccia
di fare un concilio nazionale in Germania, l'imperatore stesso,
Carlo V si impegnava di farsi portatore di questo programma e
già allora, guarda caso (ma non c'è niente di
decisivo), veniva fuori anche il nome di Trento. Furono fatti
diversi nomi, soprattutto nella zona di margine tra l'ambiente
germanico e l'ambiente latino, ma insomma, poteva anche essere
Trento, che poteva, al limite, figurare come terra tedesca pur
essendo italiana (parola pronunziata in quel tempo senza dubbio
da Bernardo Clesio, che nei consigli imperiali a quel tempo aveva
la sua presenza). È appena un sintomo, perché non
c'è stata nessuna decisione.
È seguito, quello di cui
noi non teniamo presente abbastanza, anche se l'abbiamo avuto in
casa: il fenomeno della guerra rustica, della rivoluzione
generale dei contadini contro i nobili, con i suoi programmi
ultrademocratici anche in campo ecclesiastico, compresa la nomina
dei parroci e l'imposizione delle regole secondo le quali
dovevano predicare. In realtà ci fu un momento di febbre
sociale e politica, dove, per fare un po' di ordine, a cominciare
dalla posizione dei luterani, ci si è giovati
dell'intervento forte dei landesfürsten, cioè
dei principi territoriali, dei capi di questi vari stati, alcuni
erano cattolici, altri erano protestanti. A questo punto essi
hanno instaurato un ordine di tipo protestante, dalla
amministrazione dei beni, alla destinazione delle rendite, alla
nomina dei ministri, dei pastori ecc., e, naturalmente, si
instauravano altre regole. È dopo il 1525 che abbiamo
tutta una dialettica difficile, dove l'imperatore, pur portando
avanti la sua idea che vuole comunque andare verso la
riunificazione religiosa, in realtà ha dovuto cercar tutti
i mezzi possibili. È l'era dei colloqui di religione,
degli incontri ecumenici, per quel che allora si poteva fare, a
cominciare dalla Dieta di Augusta, dal colloquio di Augusta (1530
fino al 1541) e così via.
A questo punto, l'altro
interlocutore da cui dipendeva se questo concilio ci fosse o non
ci fosse, è il papa. Ma personalmente Clemente VII del
concilio aveva troppa paura ed era una cosa di cui non si poteva
neanche parlare. Se ne riparla con il papa successivo, Paolo III
, di cui giustamente sono stati esaltati i meriti, che finalmente
ha messo in positivo l'ipotesi del Concilio. Addirittura in un
primo momento, pareva che alla corte papale (1537) si pensasse
seriamente a un concilio dedito anche ai molti problemi di
riforma, di riforma dei rapporti di competenze, soprattutto tra
la Santa Sede e le chiese locali. C'è una commissione
pontificia che è molto radicale nel formulare questi
principi, il consiglio “de emendanda
ecclesiae”, che non esita a dichiarare il principio che
la radice di tanti mali e proprio dovuta all'esagerazione di una
onnipotenza papale nella reggenza della vita delle chiese di
tutto il mondo e da cui sono conseguiti infiniti
inconvenienti.
Naturalmente, entrando
più specificatamente nel problema, si doveva scegliere, e
qui, da parte papale, nasce la preferenza per una trattazione in
concilio dei temi di fede e, invece, molta cautela nell'affidare
al concilio problemi di riforma. Non mi diffondo ulteriormente su
questo, la situazione però era già matura,
cioè sono stati fatti anche dei primi tentativi di
convocazione.
Nel 1537 c'è stata una
convocazione del concilio ecumenico a Mantova, che per ragioni
più di politica locale (a un certo punto i duchi di
Mantova non si sono sentiti sicuri abbastanza) è andato
vuoto e trasferito a Vicenza nel 1538. Fu una convocazione
papale, con i legati papali che hanno portato ovunque l'invito ad
intervenire, compreso in Inghilterra. Si è giunti
così nel 1541 dove, in occasione di un'altra dieta a
Ratisbona, si era arrivati di nuovo alla discussione del luogo
dove tenere il concilio. Certamente Trento non era nelle simpatie
della Santa Sede, era un po' troppo a rischio, un po' troppo in
terra tedesca e quindi poco controllabile. Tuttavia lì
c'è stato un fatto episodico (certe volte sono le cose
inattese che decidono), cioè in questa dieta il legato era
il card. Morone vescovo di Modena, al quale erano state date
certe istruzioni, ma un certo punto la dieta sembrò votare
a maggioranza per la sede a Trento, anche se questa non era
prevista come conforme alle istruzioni date al legato papale;
però il Morone seppe, con molta abilità, riversare
alla centrale romana questa possibilità che finalmente
stava maturando e, nel '42, si ha la convocazione del Concilio a
Trento. Si ebbe anche una preparazione alle operazioni (1542), fu
mandato il vescovo di Cava dei Tirreni a studiare la situazione.
Egli trasmise a Roma una serie di dati a proposito della
città e dei luoghi: il Duomo, la pianta del Duomo come
possibile sede delle sessioni conciliari, la pianta del Castello
del Buon Consiglio (dove si pensava che eventualmente nei momenti
culminanti potessero anche convenire papa e imperatore) e una
descrizione, per noi molto interessante, dove dice che la
città di Trento era articolata, anche nel suo statuto
comunale, in quattro parti. Non sono quattro parrocchie, sono
quattro distretti urbani: quello di Santa Maria, quello di san
Benedetto (che non è mai stato parrocchia), quello di san
Pietro e quello di san Vigilio. Quattro distretti urbani, di cui
tre italiani e uno tedesco, quello di san Pietro. Tutto questo al
punto tale che nelle proposte del vescovo di Cava del 1542, si
insinua anche la possibilità, se ce ne fosse stato
bisogno, di ripartire secondo gruppi nazionali gli intervenienti
al Concilio a Trento, per evitare litigi o difficoltà;
infatti questa ripartizione in distretti poteva anche ripartire i
provenienti secondo nazione. Fu anche mandata a Trento una
delegazione col cardinal Pole, l'inglese, bandito
dall'Inghilterra da Enrico VIII, però la cosa non ebbe poi
corso.
La convocazione a Trento
è del '42 ed è, in questo contesto, studiata molto
bene nei particolari, però in realtà scoppiò
ben presto la guerra tra Carlo V e la Francia e tutto questo
sospese la situazione fino al 1544 quando si ebbe finalmente la
vittoria di Carlo V sulla Francia con una condizione
nell'armistizio che obbligava la Francia a partecipare al
Concilio quando e come l'imperatore avesse decretato.
A questo punto, anche la Santa
Sede affrettò la riapertura del Concilio. La vera
convocazione, decretata per primavera del 1545 nella domenica
laetare, era nata in questa occasione, con la gestione
politica dell'imperatore che trovava modo di far venire al
Concilio anche quelli che non ne avevano voglia, tanto più
dunque i principi germanici.
Forse basta un accenno a
questo, perché il primo e il secondo periodo del Concilio
in realtà sono da vedersi nel contesto di questo grande
tentativo di ricomporre l'unità: un concilio per
ricomporre l'unità religiosa dove naturalmente non basta
definire delle verità, che, definite in modo rigido,
piuttosto sono fatte per differenziare, per tagliare con quegli
per anatema sit, ma per ricomporre tutto il discorso della
riforma.
Comunque con questi termini,
non nell'aprile, ma nel dicembre, non nella domenica
laetare, ma nella domenica gaudeti, il 13 dicembre del
'45 il Concilio finalmente poté aprirsi. Con tutta questa
variazione di programmi però, dove dalle diverse parti si
praticano tendenze diverse.
In realtà le prime
sessioni sono state dedicate al programma, alla rifinitura del
programma, e il punto programmatico più essenziale era:
dogma o riforma.
Si era arrivati in Concilio
(anche se non era certo la preferenza della Santa Sede) a
definire che ad ogni tappa di lavoro, per ogni sessione, si
doveva approntare un capitolo sia della dottrina di fede, sia del
campo della riforma. Dopo alcune premesse, il Concilio ha deciso
in partenza la base su cui discutere: la sacra scrittura, fede
nella sola scrittura, quale scrittura, quale traduzione, che
autorevolezza dare e non dare alla scrittura e qui
contemporaneamente il grosso tema, che ancora oggi costringe a
riflettere, della tradizione.
Attenti a questa parola
“tradizione”, ancora oggi! perché c'è
dentro di tutto, ma e c'è dentro anche quella cosa che
è più autentica, cioè la vitalità
della Chiesa, e lì si è impigliato molto il
discorso.
Parlando di riforma,
però, abbiamo anche delle dichiarazioni abbastanza
interessanti: riforma della predicazione, uso più largo
della scrittura nella istruzione cristiana, ci sono dei termini
abbastanza buoni, direi anche aperturisti, verso le istanze
protestanti, se vogliamo chiamarle così, al punto tale che
lo stesso card. Cristoforo Madruzzo, che ha partecipato molto
intensamente a queste parti, è stato, anche da chi stava
al polo apposto, sospettato di filo-luteranesimo. Non ci voleva
tanto per crearsi certi sospetti.
Poi il tema del peccato
originale, e poi il grosso tema della giustificazione. Certo, nel
contempo, andava di pari passo tutta una politica europea che
stava organizzando una forma di resistenza militare contro i
prìncipi protestanti in Germania, con l'alleanza dello
stato pontificio, e qui, nell'estate del '46, sono passate le
truppe pontificie, alleate con l'imperatore, che dovevano
sconfiggere i principi. Qui c'è sempre il calcolo di Carlo
V: se non vengono a Trento per amore, cerchiamo di portarceli con
la forza.
Tutto questo è andato
rallentando e prolungando molto le discussioni, tanto che il tema
della giustificazione è andato trascinandosi fino alla
fine dell'anno e solo nei primi giorni del '47 si è avuto
il grande decreto della giustificazione, decreto più che
sistematico, più che digerito anche concettualmente, senza
dubbio; qualcuno avrebbe anche detto che se l'avessero avuto
vent'anni prima evitava tutte le fratture religiose.
Però già qui, nel
campo della riforma, all'ultimo momento, dieci giorni prima della
scadenza della sezione, qualcosa tanto per dire, ma tutto
sommato, ben poco.
E così, sbloccato il
grosso nodo della giustificazione, si cominciava la discussione
dei sette sacramenti, prima dei sacramenti in genere, la settima
sessione (mi pare ancora nel gennaio) e poi sarebbe stato il caso
dei singoli sacramenti: il battesimo, la cresima e giù,
uno dopo l'altro i sette sacramenti.
Senonché nel marzo del
'47 a Trento, scoppiò un po' di epidemia, febbre
petecchiale, tifo petecchiale. Non mancarono naturalmente i
clinici che dichiararono un pericolo di epidemia che travolgeva
tutti. Da questa situazione, e dai i vescovi italiani che non
stavano volentieri a Trento, spunta la proposta di punto in
bianco, senza neanche sentire cosa pensavano a Roma, che il
Concilio stesso venga trasferito d'urgenza a Bologna, nello stato
pontificio, tutto tranquillo.
Senza saperlo, il Concilio si
trasferisce proprio nei giorni in cui in Germania la grossa
operazione di Carlo V arrivava ad avere un successo militare: la
battaglia di Bulkner, la vittoria sui protestanti. Finalmente
l'imperatore aveva in mano la possibilità di obbligare in
armistizio i principi germanici a partecipare al Concilio a
Trento come si erano impegnati da gran tempo. Così,
naturalmente è tutto sospeso. A Bologna si resta a
discutere invano, c'è stato un certo lavoro teologico da
parte delle commissioni, ma i lavori ristagnano fino alla morte
di Paolo III nel '49 e alla elezione di Giulio III, che era il
primo legato papale a Trento. Allora, finalmente si riprende, ma
nel frattempo la situazione in Germania si era fatta molto
critica.
(Adesso devo riassumere in due
parole perché vedo che il tempo mi scappa, ma avete capito
come in realtà sia tutto da rifare.)
Questa impostazione del
Concilio per riuscire a ricomporre l'unità religiosa in
Germania è ancora la linea dominante per il secondo
periodo del Concilio. In quel contesto è proprio Giulio
III, che da card. Del Monte aveva favorito l'infelice
trasferimento a Bologna, a riportare il Concilio a Trento e a
Trento riprende adesso il lavoro sull'eucarestia, sulla presenza
reale, sulla penitenza e l'estrema unzione.
Però dentro il Concilio
c'è anche un certo disappunto perché i temi della
riforma vengono sempre un po' snobbati. Tanto più che come
legato papale al Concilio c'è un cardinale solo, ma
è un po' tirannico. C'è malcontento dentro il
Concilio. Anche da parte di coloro che sono disposti a sostenere
la posizione primaziale del papa, si è a disagio. Gli
spagnoli di sessione in sessione si lamentano di dover tornare a
casa burlati: ce l'han data da intendere che si faceva anche la
riforma e non la si fa!
In questa situazione nei primi
mesi del '52 il Concilio già ristagna. Che decide tutta la
vicenda, ed è questo che forse non è stato ancora
interiorizzato da parte cattolica, è il fatto che, nel
frattempo, con l'aiuto della cattolicissima Francia, i principi
protestanti di Germania hanno inscenato di nuovo la ribellione
contro l'imperatore e hanno scatenato la guerra civile
rovesciando quella situazione di prevalenza su cui l'imperatore
contava per costringerli a venire al Concilio e ad
accettarlo.
Il secondo periodo è
naufragato così di fronte alla paura, anche fisica, di un
arrivo dei lanzichenecchi protestanti che stavano già
invadendo la valle dell'Inn, per cui l'imperatore da Innsbruck si
è rifugiato al di qua del Brennero e, attraverso la
Pusteria, in Carinzia.
Tutto crollava da parte
politica, ed è qui in realtà che si consolida la
divisione religiosa della Germania. In una situazione drammatica
quanto mai, che costringe anche i due fratelli d'Asburgo, Carlo
V, per un verso, e il fratello Ferdinando (che ha il compito di
re di Germania), a fare un armistizio con i protestanti, dove
ovviamente la prima clausola è: “lasciateci in pace
in campo religioso”.
Tutto questo ha poi il suo
punto nodale a livello di legge generale dell'impero germanico
nella pace di Augusta 1555 nella quale si afferma il principio
che la libertà religiosa appartiene ai principi, a coloro
che hanno rango di principi sovrani dentro l'impero, i quali
possono scegliere quella confessione religiosa che gli garba, per
conto loro, e imporre al territorio la soluzione scelta: cuius
regio eius religio.
La rottura religiosa in ambito
germanico è databile a questo punto. Per quanto riguarda
il Concilio di Trento a questo punto nessuno più ne parla.
Perché a Roma il papa Paolo IV, molto deciso in senso di
volontà di riforma, ma di un determinato tipo di riforma,
certamente non si sogna neanche lontanamente di riferirsi al
Concilio.
Nel frattempo in Europa la
situazione religiosa degenera, nasce un altro problema che non
è tanto quello della Germania ma è quello della
Francia, la cattolicissima Francia, che per ragioni politiche e
culturali sta per contattare i calvinisti. Quindi alla morte di
Paolo IV, il suo successore, Pio IV, si trova nella situazione di
dover affrontare di nuovo una istanza conciliare perché la
Francia, anche la Francia cattolica, è conciliarista,
è quella che conserva gli ideali sinodali del tempo di
Costanza, l'autonomia delle chiese locali.
Per non perdere anche la
Francia si convoca di nuovo il Concilio discutendo molto se
è il caso di chiamarlo continuazione del Concilio di
Trento, sospeso per disperazione nel '52, oppure se chiamarlo un
Concilio nuovo: in realtà è l'una e l'altra cosa.
Nella bolla papale che lo riconvoca si evita accuratamente di
pronunziarsi sia in un senso come nell'altro. Acciocché
tutti lo vedano come credono, c'è solo la coincidenza nel
luogo e la ripresa dei lavori lì dove si erano fermati nel
'52 che lo classifica Concilio di Trento. Anche qui il luogo ha
un suo significato, non c'è dubbio.
L'ultima fase del Concilio
è quella dove tra cattolici tradizionali si parla un po'
meno e che, anche nelle forme esterne di celebrazione, ha
lasciato tracce minori. Invece, a mio avviso, è in forza
del terzo periodo che il Concilio di Trento è stato quello
che è, per di quello che è riuscito a realizzare
pur tra mille difficoltà e crisi fortissime.
Proprio perché, per un
verso erano arrivati i francesi, con idee molto difficili da
comporre, però non protestanti.
Badate bene, che se c'è
un tema che nel terzo periodo era pronto continuamente a saltar
fuori e che la Santa Sede per prima ordinava che fosse
accantonato, che non fosse messo sul tavolo, quello è
proprio il tema della supremazia del papa sopra i vescovi (a noi
parrebbe la cosa più naturale del mondo). Perché si
sapeva che con la preponderanza soprattutto dei francesi,
conciliaristi, la discussione sarebbe andata male.
Tanto per dire, nel Concilio
stesso, anche tra il gruppo dei presidenti del Concilio, la
differenza di idee e di tendenze era molto forte al punto tale da
dividere, per un verso, quelli che si chiamavano gli zelanti, i
sostenitori a oltranza della supremazia pontificia e di tutte le
cose delle leggi ecclesiastiche e, dall'altro verso, quelli che,
pur rispettando la struttura teologica del primato, sentivano
l'estrema necessità di modificare e di metter freno a
certe competenze della Santa Sede.
Ne do un esempio soltanto: il
problema della residenza dei vescovi e dei parroci, nel luogo
dove erano nominati, che troncasse una volta per sempre l'abuso
per cui, per finanziare un cardinale in servizio alla Santa Sede,
gli si procacciavano tre, quattro, fino a sette sedi vescovili,
che lui non serviva. Queste assurdità indubbiamente si son
fatte sentire molto forte e avevano portato la vita del Concilio
a uno stato di paralisi, al punto tale che il capo degli zelanti,
cardinal Simonetta, che aveva la sua residenza nel palazzo
Geremia, era riuscito perfino a seminar diffidenza sui suoi
colleghi: il primo presidente, il card. Ercole Gonzaga, che
risiedeva nel palazzo Turn (l'attuale palazzo comunale) e
l'altro, il card. Seripando, teologo principale del Concilio,
anche lui cattolico con residenza in via Bellinzago. A questo
punto tutto era arenato.
In realtà, lo sblocco
è avvenuto solo con la morte dei due appena adesso
nominati, card. Gonzaga e card. Seripando, l'uno il 2 di marzo
del '63, e l'altro il 17 di marzo del '63. Le loro morti hanno
dato modo e costretto Pio IV a ripensare a tutto il problema
della dirigenza del Concilio mandando due cardinali nuovi,
Naragero, per un tempo, veneziano buon esperto, ma soprattutto il
cardinal Giovanni Morone, guarda caso, quel tale che così,
quasi alla gherminella, nel '42 aveva ipotizzato il luogo di
Trento come luogo del Concilio, ma anche lui tartassato e non
poco dai sospetti dell'Inquisizione in Italia (quattro o cinque
anni prima il Morone era sotto inchiesta dell'Inquisizione,
imprigionato in Castel Sant'Angelo). Dunque una soluzione
tutt'altro che integralistica, ed in realtà Giovanni
Morone, nuovo presidente del Concilio di Trento fu quello che,
tenendo maggior conto dei postulati di riforma e cercando di
comporre i contrasti e trovando una soluzione è riuscito a
portare in porto il Concilio dal luglio al dicembre. Mi fermo
qui, ma capite quante cose ci sarebbero ancora da discutere.
(trascrizione da registrazione
sonora)